IL FUTURO RIPARTE ANCORA DALLA SCUOLA

INTERVISTA AL POLITOLOGO MARIO GIRO

L’urgenza di una educazione umana integrale per promuovere la cultura della pace e favorire relazioni di fraternità e reciprocità tra il Nord e il Sud del Mondo. Una sfida che don Carlo Muratore iniziò a portare avanti con lungimiranza e determinazione 50 anni fa, mettendo l’alfabetizzazione al centro della missione dell’OPAM, e che oggi sempre di più si conferma una priorità anche della cooperazione internazionale.

«Una sfida decisiva dei nostri tempi», come la definisce il politologo Mario Giro – professore di relazioni internazionali all’Università per stranieri di Perugia, già viceministro degli Esteri e sottosegretario agli Affari Esteri, responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di
Sant’Egidio – intervistato dall’OPAM.

Migrazioni e pace i segni dei nostri tempi

«Guardando ai segni dei tempi che emergono oggi dallo scenario globale possiamo affermare con forza che il segno più forte e più evidente sia quello delle migrazioni», spiega Giro rimandando all’immagine di un «popolo dolente che si mette in marcia per sfuggire alla guerra e migliorare le proprie condizioni, che bussa alle porte dell’Europa e l’Europa non risponde. Un popolo di pellegrini, pionieri di una nuova era in cui anche la libertà di movimento dovrebbe essere rispettata, così come la globalizzazione vuole la libertà di movimento per i soldi e per le merci». E poi ci sono «i bambini che muoiono sulle nostre coste o nelle foreste della Bielorussia», aggiunge il docente. Ma tra i segni dei tempi che siamo chiamati con urgenza a leggere ed interpretare, come cristiani e cittadini, secondo il politologo ve n’è un altro, troppo poco attenzionato e invece fondamentale: l’assenza di pace.

«Purtroppo oggi la pace è meno considerata qualcosa di prezioso», spiega Giro. «Dopo il 2000, infatti, le nuove generazioni si sono interessate soprattutto alle questioni ecologiche e di sostenibilità, seppur giustamente. Il problema è che si è persa un po’ la preoccupazione per la pace. Invece ci sono troppe guerre, e soprattutto guerre che non finiscono mai, che ovviamente impediscono lo sviluppo. Per questo motivo ritengo che affrontare il tema della guerra e della pace sia un’altra sfida decisiva che richiede il coinvolgimento di tutti. La generazione del Novecento ha vissuto il ripudio della guerra. Ora, bisogna che questo patrimonio si trasferisca alla generazione del nuovo Secolo».

Ricostruire le scuole per riaccendere la speranza

«Se non c’è pace non ci può essere giustizia. La pace è la condizione principale per lo sviluppo, per la giustizia, per l’uguaglianza, un diritto alla base di tutti gli altri diritti», sottolinea il docente portando ad esempio ciò che succede laddove lo Stato viene distrutto, come nel caso della Libia. «Dal momento che non c’è più pace, qui non c’è più nemmeno la possibilità di affermare la giustizia, perché il Paese è in mano alle milizie. Un esempio replicabile per tante, troppe aree geografiche dove ciò che sta succedendo molto spesso con queste guerre interminabili è proprio che si creano milizie. E allora la guerra diventa un business o un mestiere. E quando c’è una guerra, la prima cosa che succede è che le scuole chiudono. Anche la pandemia ha dimostrato che la prima cosa che succede quando il sistema va in crisi è che le scuole chiudono. Lo abbiamo visto sia nel Nord che, con conseguenze ancora più gravi, nel Sud del Mondo». Ecco perché «la formazione, l’educazione e l’alfabetizzazione oggi dovrebbero essere uno dei primi compiti della cooperazione. Perché la scuola è la prima cosa che viene distrutta quando c’è una guerra», sottolinea Giro. «D’altra parte – continua – se c’è stato un grande successo dell’indipendenza africana negli anni Sessanta del secolo scorso, è stato proprio perché si è alfabetizzata una percentuale importante della popolazione. Adesso, invece, stiamo tornando indietro.

Quindi, va bene che si facciano progetti di cooperazione originali e innovativi; ma scuola, educazione e sanità sono tre priorità sempre urgenti e attuali. Senza scuola non si potranno porre le basi per uno sviluppo autentico e duraturo».

Una sfida che riguarda anche il Nord, perché «anche qui è fondamentale parlare con gli studenti nelle scuole per sensibilizzarli su quanto accade nel resto del mondo, soprattutto in un momento in cui la mentalità generale di chiusura porta a percepire l’altro principalmente come una minaccia. Sebbene questo già si faccia, bisogna incrementare l’impegno anche in questa direzione».

Cooperazione internazionale tra nuovi obiettivi e vecchi ostacoli

Sappiamo che la riforma della cooperazione del 2014 ha stabilito il principio secondo cui la cooperazione per lo sviluppo sostenibile, i diritti umani e la pace sono “parte integrante e qualificante della politica estera dell’Italia”. Tuttavia, vediamo che la riforma stenta a tradursi in progettualità capace di incidere concretamente nei processi di educazione e di formazione. Costruire la pace per garantire la giustizia nelle aree più povere del pianeta, invece, richiede innanzitutto proprio un cambiamento culturale sia nel Nord che nel Sud del Mondo. Come spiega Giro, «la riforma del 2014 era volta a creare l’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo, che però stenta a decollare in maniera incisiva, perché è necessario aumentare gli investimenti. Inutile fare riforme se poi i soldi diminuiscono. Senza finanziamento non ci può essere cooperazione. Questa è la verità. L’Italia ha promesso di arrivare allo 0,7% del PIL e dovremmo farlo».

Più che di limiti dell’attuale modello di cooperazione internazionale, dunque, il docente nonché viceministro e sottosegretario agli Esteri, preferisce parlare «di ricerca di nuovi modi e metodi di finanziamento, integrando nella cooperazione internazionale anche il settore privato». Idea definita «intelligente, perché in fondo la cooperazione può essere qualcosa di vantaggioso sia per chi la fa sia per chi la riceve». Anche rispetto ai due modelli dominanti – da una parte le grandi ONG come Médecins Sans Frontières, Oxfam, Care International, Save the Children, con bilanci da oltre un miliardo di dollari all’anno, e dall’altra le piccole associazioni che caratterizzano la fisionomia della cooperazione italiana, – premesso che «c’è bisogno di tutti e di tutto», Giro non ha dubbi che «in Italia abbiamo più esperienza rispetto al secondo modello. Siamo un Paese di tutte realtà associative abbastanza piccole e piccolissime. Per questo c’è una nutrita esperienza di progettualità “da comunità a comunità”. Una ricchezza che nasce anche dall’ambiente cattolico, dalle parrocchie, dalla cooperazione originaria che non si è mai persa, e che rimane un tessuto molto importante da proteggere e valorizzare».

Laura Malandrino